Italo Tomassi, Painter - Article by writer and director Gianfranco Angelucci (2009) (ITA)
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Italo Tomassi pittore. Pittore di inganni.
Sono di sua mano il giardino delle Delizie di Trimalcione eseguito su gommapiuma per il Satyricon; la gigantesca sagoma del transatlantico Rex in Amarcord; tutti i fondali e, neanche a dire, tutti i mari di cui Fellini ha disseminato i suoi film: calmi, burrascosi, spumeggianti, minacciosi, sereni, scintillanti, notturni, assolati, verdi, azzurri, cangianti.
E tutti gli sfondi e i cristalli dipinti con cui il regista cambia i connotati alle prospettive dei teatri, ai cieli, ai paesaggi. E i quadri alle pareti degli ambienti in tutti gli stili possibili dal ritratto tizianesco al paesaggio arcadico, dall’oro bizantino agli Hogarth ai Turner ai prerinascimentali, agli impressionisti, ai neoclassici, ai Goya, ai Rembrandt, ai Corot, ai Rubens. Ma il ricordo che più lo eccita è legato a “Roma”, la famosa sequenza della Metropolitana quando l’equipe tecnica degli scavi si imbatte in una casa patrizia perfettamente conservata nel tempo; Fellini voleva che all’irrompere dell’aria in quegli ambienti rimasti isolati per secoli, le figure affrescate delle pareti si dissolvessero come fantasmi. Italo trovò alla fine la soluzione. I dipinti vennero ricoperti col bianco di Mendon, una vernice che risulta trasparente durante la stesura e fino a quando resta bagnata, ma che assume la sua corposità asciugandosi. Al momento di girare, collocando lampade a incandescenza dietro le varie tele dipinte in stile pompeiano, il bianco venne fuori a chiazze ricoprendo progressivamente i colori del finto affresco a parete; e creando proprio la sensazione che le figure tracciate sui muri della millenaria abitazione sbiadissero e scomparissero per sempre. Una suggestione indimenticabile.
Tomassi ne è orgogliosissimo senza superbia, felice senza compiacimento, teneramente entusiasta. E’ un uomo mite e schivo, innamorato del suo lavoro senza presunzioni d’artista, grato del talento che Dio gli ha dato e col quale ora accompagna i bei giorni della vecchiaia senza l’angoscia delle ore da riempire. Nel suo appartamento al settimo piano di un condominio di Via delle Cave con finestre ben assolate c’è quanto gli serve per non smettere di dedicarsi alla tela e ai pennelli. Gli occhi gli brillano, accesi da un sorriso buono e tutto interiore, schivo e delicato.
Fellini è al centro del ricordo. Chi avrebbe mai detto che un giorno si sarebbe incontrato proprio con quel signore che lo faceva tanto ridere sulle pagine del Marc’Aurelio? Era la sua rivista preferita, si fermava addirittura in strada per leggere subito “Cico e Pallina” o “Ma tu mi stai a sentire?”.
Il regista riminese è la sua vera passione, l’incontro che gli ha permesso di realizzare imprese uniche, irripetibili, che ogni artigiano sogna nel suo lavoro ma che fatica a raggiungere perché ritenute o troppo spregiudicate o impossibili.
Nel ‘61 al momento in cui gli veniva conferito il premio “Una vita per il cinema” i film realizzati erano 350; oggi sono più di 400. Quali? Ma tutti, da Quo Vadis a Ben Hur, alla Madama Butterfly a Sodoma e Gomorra.
Tomassi ha cominciato a sedici anni facendo l’apprendista decoratore, al seguito dello zio Giulio Sordoni, non del tutto digiuno di tecniche di disegno perché nella sua condizione di orfano era stato messo a studiare con profitto all’Istituto San Michele. In prima elementare scriveva da destra a sinistra con la mano mancina, come Leonardo, e la maestra si divertiva a leggere i suoi dettati in trasparenza contro i vetri della finestra. Imparò successivamente a usare la destra ma per sua comodità continuò a scrivere in tutti e due i modi riempiendo i quaderni di pagine speculari. Una attitudine mai perduta anzi messa curiosamente a frutto nel suo lavoro con prezioso risparmio di tempo: con tale espediente poteva dipingere, per esempio, le venature dei finti marmi, talmente precise che avrebbero potuto essere sovrapposte.
Quando gli offrirono nel ‘35 un posto fisso alla Cines, lasciò con rammarico lo zio ed entrò nell’industria della celluloide da cui non si separò più assistendo e partecipando a tutte le vicende della nostra cinematografia; compresi gli incendi che distrussero i teatri Cines e la successiva progettazione e quindi costruzione dei nuovi stabilimenti di Via Tuscolana.
E’ lui il vero spirito di Cinecittà, il suo genius loci, creatore di boschi, cieli, mari, laghi, piazze, portici, architetture, prospettive; l’illusionista del trompe l’oeil, il fatato paziente Geppetto delle miniature e dei modellini, l’artigiano dalle mani d’oro, e dall’infaticabile, prodigiosa duttilità, versatilità, mimesi figurativa.
Adesso che ha settantasette anni, quasi settantotto, non vuole più dipingere le scenografie dei film (l’ultima volta l’ha fatto per “Ginger e Fred”, è di sua mano tutto ciò che si vede dalla finestra della stanza di Giulietta, in quell’albergone fuori città). Forse s’è stancato, non tanto del lavoro ma dell’ambiente che si respira intorno, turbato da gelosie, rivalità, competitività che alla sua età non hanno più senso.
Ma non ha smesso un solo giorno di dedicarsi alle sue tele 70x100, il formato che predilige. A casa sua, appoggiate l’una all’altra contro la parete di qualche stanza dove gli estranei non entrano, ne conserva un’intera collezione.
Nel tinello è esposto un dipinto vasto quanto l’intera parete su cui si sono posati con mano lieve i paesaggi di Poussin: quella campagna romana, ineffabilmente idilliaca, che è entrata ormai a far parte di una certa tradizione paesaggistica e romantica, da cartolina. Una composizione oleografica ma seducente, freschissima nell’ispirazione e sapiente nell’esecuzione. Un primario di ospedale sta insistendo per averla e Italo medita di dargliela, ma per un motivo molto pratico: perché così gli si libera la parete e può ricominciare da capo a dipingere; altri quindici giorni benedetti, felici, da impiegare nell’invenzione di un nuovo soggetto, altri sfondi, altri personaggi, altre luci e colori. Una festa.
Gli ultimi quadri che tiene poco in vista e che lui chiama “concettuali”, si discostano invece da questo naturalismo di maniera, aspirano ad esprimere stati d’animo, sensazioni, concetti astratti, in una forma più sintetica, meno illustrativa; sono sempre figurativi ma non imprigionati dentro la necessità del vero, più indipendenti nell’ispirazione; alcuni assomigliano a tavole di Moebius, fondali fantafuturibili dei Metal Hurlant, metropoli di ghiaccio, geometrie trasparenti; oppure vortici di luce, vertiginose volute di colore tracciate in cromatismi netti.
Pennellate senza retorica, simili alle sue mani vissute, abili, nodose e prive di stanchezza. Perché Tomassi, artista appassionato, irrimediabilmente innamorato del suo lavoro, non cesserà mai di ricercare, e immaginare, e creare, e sperimentare ciò che colori tela e pennelli possono raccontare della sua anima generosa.
P.S.
Sono felice che questo breve profilo di Italo Tomassi venga ora riproposto nella pubblicazione che accompagna la ‘sua’ mostra; e soprattutto che l’esposizione sia arrivata a compimento grazie all’affettuosa, dolcissima tenacia della figlia Daniela, non meno amabile del padre.
Prendere contatto con il prezioso lavoro di Italo servirà a incoraggiare tutti noi che amiamo il cinema, varrà da stimolo a non abbandonarci al pessimismo, nella fiducia, anzi nella certezza, che la Settima Arte, a dispetto di tutte le crisi passate e presenti, continuerà a farci sognare sugli schermi – come diceva Fellini - “con quattro pezzi di carta colorata e un po’ di colla.”
G.A.