Italo Tomassi: The Cinema for a life - film critic and essayist Alfredo Baldi's introductory speech to the "Italo Tomassi Painter in Cinecittà" exhibit (2010) (ITA)
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Nell'introduzione alla biografia di suo padre, Italo Tomassi, che la figlia Daniela ha tenacemente e amorevolmente steso non molto tempo fa, si può leggere una frase che a prima vista può apparire presuntuosa, ma che - rovesciata nei termini in cui è scritta, ma intatta nella sostanza - non può che trovarmi d'accordo: "Questa non vuole essere né una storia del cinema, né la storia di Cinecittà, sebbene tutte e due siano indissolubilmente legate alla storia di mio padre." In realtà è la vita di Italo Tomassi che è indissolubilmente legata alla storia del cinema, e alla storia del cinema italiano e di Cinecittà in particolare. Basti pensare che, assunto dalla casa di produzione Cines all'inizio del 1935, all'età di 25 anni, Italo non esce più dal "ventre materno" del cinema. Rimane infatti alla Cines per pochi mesi, fin quando un incendio ne distrugge gli stabilimenti il 26 settembre di quello stesso anno, ma subito dopo, nel novembre, la neonata Cinecittà lo assume come "salariato decoratore", per promuoverlo quindi, nel novembre 1939, a "impiegato tecnico". E a Cinecittà Italo rimane come dipendente fino al 1964, quando presenta le dimissioni, ma continua a lavorarvi, da libero professionista, fino al 1985.
Tomassi nel cinema è stato pittore di scene, disegnatore, realizzatore e progettista di scenografie: uno di quei valorosi professionisti di cui il cinema italiano si può vantare, che hanno costituito la sua ricchezza e ne hanno fatto la fortuna, critica e di pubblico, artistica e commerciale. Valorosi professionisti, dicevo - e tra costoro Tomassi è certo uno dei più eminenti - ma purtroppo sconosciuti al pubblico, noti solo agli addetti ai lavori, anzi agli addetti ai lavori dello specifico settore di attività. E già: il pubblico, coloro che vanno a vedere i film, oggi conosce soprattutto - direi quasi soltanto - i nomi delle attrici e degli attori principali, soprattutto se giovani, belli e resi popolari dal piccolo schermo, magari come veline, letterine, tronisti, ex GF, ex Isola dei famosi, e via degenerando. Non molti sono coloro che, prima di entrare in una sala cinematografica, si soffermano sul nome del regista di un film; ancora meno coloro che vanno a cercare l'autore della fotografia o del montaggio, della scenografia o del costume. Eppure i collaboratori della regia sono spesso, per non dire sempre, di importanza fondamentale nella progettazione, nella costruzione e nella realizzazione di un film, e quindi nel determinarne il suo successo (o magari l'insuccesso). Lo scenografo, ad esempio, si avvale per la realizzazione delle sue idee di numerosi collaboratori, ma tutti sconosciuti, pochissimo conosciuti o noti solo agli addetti ai lavori. Tra questi professionisti un posto in prima fila spetta di diritto a coloro che, come Italo Tomassi, contribuiscono in maniera spesso determinante a creare il paesaggio visivo, l'aspetto iconico del film: i disegnatori di scene, i realizzatori di scenografie, i pittori di scena.
Ma Tomassi è stato qualcosa di più. Le sue doti, le sue capacità, le sue conoscenze, la sua inventiva ne fanno una personalità che poco o nulla ha da invidiare ad altri professionisti del cinema che hanno lavorato o lavorano nel campo della scenografia. L'unica "colpa" di Tomassi è di non aver potuto seguire scuole blasonate, Accademie di Belle Arti o Facoltà di Architettura, quelle che di solito consentono a chi le frequenta l'accesso al "salotto buono" del cinema. I suoi studi sono rimasti confinati nell'Ospizio di San Michele a Ripa Grande, a Roma, il maggiore orfanotrofio della città, frequentato da ragazzi indigenti. Lì, comunque, sotto la guida di bravi maestri, Italo ha potuto apprendere il suo mestiere: la decorazione, l'affresco, la pittura, la prospettiva, l'architettura. Ha poi affinato le sue conoscenze tramite uno zio, apprezzato decoratore, nella cui bottega a Roma è andato a lavorare per qualche anno dopo essere rimasto orfano anche di madre a soli 19 anni. Italo Tomassi si può ben a ragione definire, quindi, un "self made man", uno che si è fatto da solo attraverso un duro, caparbio, incessante lavoro.
Duro lavoro davvero, soprattutto agli inizi della carriera, quello del pittore scenografo, sempre in mezzo alle vernici, alle esalazioni degli acidi, spesso in bilico su precarie passerelle a molti metri di altezza dal suolo, talvolta all'aperto, a lavorare anche in condizioni di tempo sfavorevoli, impegnato a terminare la sua opera entro tempi rigidi e molte volte difficili da rispettare, costretto quindi a lavorare anche di notte, senza orari, per ore e ore senza sosta. Raccontato in questi termini sembra che il lavoro del pittore scenografo di cinema assomigli piuttosto a una prigione o a un campo di concentramento. Così ovviamente non è: si tratta di un lavoro scelto liberamente, soprattutto di un lavoro appassionante, molto spesso gratificante, i cui risultati sono immediatamente visibili e successivamente, a film terminato, ben apprezzabili. Ma i rischi, i pericoli, gli stress, le angosce, le ansie, cui non di rado è sottoposto chi esercita questa professione non sono da sottovalutare.
Dalla lettura della biografia di Italo Tomassi e delle parti del suo diario che vi sono incluse ci si rende subito conto della sua modestia. Modestia innata, di persona perbene, modestia non esibita, ma genuina, quella di una persona che conosce le proprie capacità ma non ne fa sfoggio, le considera naturali, le utilizza per rendere sempre migliore, sempre più apprezzabile, il proprio lavoro, anzi la propria passione. A testimoniare lo spessore della personalità e del lavoro di Tomassi, è sufficiente menzionare che il più importante, completo e frequentato sito web di cinema del mondo, www.imdb.com, lo indica quasi 400 volte (395 per la precisione) come responsabile dell'Art department dei film cui ha collaborato e in un caso - in realtà i casi sono ben più di uno - come Art director, nel film L'ultimo dei vichinghi, del 1961, regia di Giacomo Gentilomo. E i dati presenti sul web sono certo incompleti perché i film cui Tomassi ha collaborato sono in realtà più di 450. Nonostante questi riconoscimenti di livello mondiale, Italo si definisce, alla piccola Daniela - sei anni - che gli chiede quale sia la sua professione, semplicemente come "pittore scenografo".
"Pittore scenografo", sì, ma coartefice - insieme alla sua troupe - di una gran parte di tutti i film girati a Cinecittà dal 1937 al 1964, nonché dei film più importanti realizzati in quegli stabilimenti dal 1965 al 1985, quindi di una parte non indifferente del cinema italiano, ma di quello "buono", "alto", "nobile". E coartefice anche di molti famosi colossal stranieri girati a Cinecittà, da Il principe delle volpi (1949, di Henry King) a Quo vadis? (1951, di Mervyn LeRoy), a Ben Hur (1959, di William Wyler), a Cleopatra (1963, di Joseph L. Mankiewicz), a La caduta dell'impero romano (1964, di Anthony Mann).
Naturalmente Tomassi è stato anche pittore in senso stretto, un bravo pittore i cui quadri, in parte, ho potuto vedere e apprezzare a casa della figlia Daniela. Sono lavori nei quali ho potuto rilevare - da semplice osservatore del tutto digiuno di critica d'arte - una corposità materica e colori terragni che mi hanno richiamato alla memoria certi Morandi, ma anche certe opere di Mafai, Savinio, Scipione e Sironi. Per carità, non pretendo paragonare i lavori di Tomassi a quelli di tali illustri artisti italiani, ma la scuola, a mio parere, è la medesima. Modesta ipotesi, ma avvalorata dal fatto che quando Tomassi ha studiato pittura al San Michele di Roma negli anni Venti, erano quelli i nomi per eccellenza della scena pittorica italiana e anche gli artisti che lì Italo ha avuto come maestri non potevano non esserne in qualche modo influenzati. La passione per la pittura ha consentito a Tomassi di partecipare a numerosi concorsi e a varie mostre personali, riscuotendo sempre un buon successo. Nel 1943, ad esempio, Cinecittà organizza una Mostra di pittura e Italo non solo vince il primo premio, ma è anche gratificato dalla visita alla Mostra del famoso tenore Beniamino Gigli che gli acquista ben quattro quadri. Tomassi ha presentato le sue opere anche in altre "personali" o "collettive". Ad esempio a Roma, alla Galleria "La Fontanella" in via del Babuino nel 1956, a Napoli alla Galleria "La Mansarde" nel 1964, all'Auditorium S. Leone Magno di Roma nel 1978, dove vince il primo premio.
L'eclettismo e la sensibilità di Tomassi risaltano anche da altri episodi della sua vita, apparentemente meno importanti, ma invece significativi. Nel 1948 brevetta l'Elettrocalcio, un precursore del moderno Subbuteo, di cui tenta, purtroppo senza successo, la commercializzazione. Negli anni Cinquanta, quando la guerra è terminata da una decina d'anni e il tenore di vita è ancora necessariamente parsimonioso, è lui che costruisce artigianalmente a casa, di nascosto da Daniela, i regali della Befana e i giochi per la figlia: lo zoo con gli animaletti di gesso, le gabbie e il laghetto; una credenzina in miniatura; un fortino con gli indiani e i cowboys; la casa delle bambole con il tetto apribile e le stanze tutte perfettamente arredate. Nel 1969 è molto impressionato dalla conquista della Luna, che segue in diretta in televisione, e descrive in un lungo resoconto le sensazioni provate quella notte incollato allo schermo della TV, "la più bella notte mai vissuta". Stupefacente è l'episodio dell'operazione di cataratta, nel 1984. Durante l'intervento, eseguito in anestesia locale, Italo si concentra su ciò che vede all'interno dell'occhio durante la fasi dell'operazione e lo memorizza. Tornato a casa, esegue a colori su una tavola quattro disegni di altrettante fasi e le accompagna con didascalie esplicative. Alla visita di controllo porta in omaggio il suo lavoro al professore che ha eseguito l'intervento il quale rimane sbalordito: per la prima volta nella storia è stato documentato graficamente ciò che avviene all'interno dell'occhio nel corso di un'operazione di cataratta.
In conclusione sono convinto - e vorrei che anche chi legge queste righe si convincesse - che Italo Tomassi sia stato un personaggio molto speciale, che ha goduto della considerazione, della stima e, se vogliamo, dell'amicizia di illustri cineasti che hanno richiesto la sua stabile collaborazione. Tanto per non fare nomi e per limitarmi agli ultimi anni della sua attività, cito solo John DeCuir, Dante Ferretti, Franco Zeffirelli e Federico Fellini, con il quale ultimo ha lavorato ininterrottamente da Fellini Satyricon, nel 1968-69, fino a Ginger e Fred, nel 1984-85. Quel Fellini del quale "Italone" - così Federico affettuosamente lo chiamava - scrive, con un pizzico di commozione (anche di noi che leggiamo): "Solo quando lavoro con Fellini mi sento di fare del vero cinema".
Roma, gennaio 2010
Alfredo Baldi