The Eighth Art - article by writer and director Gianfranco Angelucci (2010) (ITA)
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Articolo apparso il 27 febbraio 2010 su “La Voce” – quotidiano della Romagna
L’arte dietro le quinte (Italo Tomassi, (Roma, 25 febbraio 1910 – 27 novembre 1990)
Esiste nel cinema un’arte nascosta di cui poco si parla, ma che specialmente nella fiorente stagione conosciuta come la “Hollywood sul Tevere” ha espresso leggendari talenti di primo piano. Erano figure dotate di grande mestiere, principalmente pittorico, che lavoravano accanto agli scenografi realizzando in concreto gli allestimenti che erano stati ideati e progettati sulla carta; persone di ingegno ed esperienza capaci di risolvere ogni problema costruttivo e decorativo all’interno dei teatri di posa. Italo Tomassi era uno di loro, anzi il principe della sua categoria, e mi capitò di conoscerlo meglio sui vari set di Federico Fellini. Nella mostra in cui si è celebrato il centenario, tenuta a Roma negli spazi trasteverini del Palazzo degli Esami, era visibile perfino una lettera in cui Danilo Donati, premio Oscar e art director di capolavori felliniani, si dichiara umilmente suo allievo. Fa parte dei tanti documenti, anche rari (come i disegni originali per la progettazione della stessa Cinecittà) che insieme alle tavole, i bozzetti, le maquette, la figlia Daniela Tomassi Sebasti ha raccolto nel tempo, ordinando, catalogando e sistemando l’ingente materiale d’archivio sul lavoro del padre in più di cinquanta anni di attività. Con l’aggiunta di una sezione dedicata alla produzione più specificamente pittorica che l’artista non ha mai smesso di eseguire in privato. Italo Tomassi infatti, orfano in tenera età, aveva appreso a dipingere, assecondando un’eccezionale inclinazione, presso l’Istituto San Michele per i senza famiglia, dove c’era una scuola indirizzata al disegno e al colore. A titolo di curiosità è interessante notare che gli riusciva naturale scrivere e disegnare contemporaneamente con la mano destra e la sinistra, a specchio, come Leonardo da Vinci. Iniziando da semplice apprendista decoratore presso uno zio, era stato presto assunto alla Cines, entrando a far parte giovanissimo del mondo della celluloide; e quando quei teatri di posa nel 1935 andarono distrutti in un terribile incendio, fu subito ingaggiato per i cantieri sulla via Tuscolana dove stava sorgendo la futura Cinecittà. Un destino segnato, una “Vita per il Cinema”, secondo il meritatissimo riconoscimento che gli venne assegnato nel 1961 a compimento di una carriera che lo aveva visto partecipe di trecentocinquanta film, cresciuti a più di quattrocento al momento della pensione. Era la stagione dei film ‘peplos’, cioè delle storie avventurose e sentimentali ambientate con dovizia di mezzi nell’antica Roma; un genere in cui è rimasta leggendaria “Cleopatra” interpretata da Liz Taylor e Richard Burton, coppia carismatica e burrascosa del divismo cinematografico. Le magnifiche scenografie di quella pellicola, come di Ben Hur, di Quo Vadis, di Sodoma e Gomorra, erano tutte passate sotto le mani sapienti di Tomassi; non soltanto per le ricostruzioni poderose, ma anche per gli effetti speciali ottici, per mezzo dei quali con abili fondali dipinti in campo lungo era possibile mostrare sullo schermo le antiche metropoli in dimensioni estese, fittizie ma perfettamente credibili. L’occhio veniva ingannato esattamente come accade oggi con le tecniche digitali, ma con un lavoro da certosino e una perizia stupefacente nell’usare colori e pennelli. In mostra è presentato un pannello di sei metri in cui tutto lo skyline dell’Urbe è riprodotto fedelmente al millimetro. Italo Tomassi era infatti anche un genio inventore, un Archimede Pitagorico simile al simpatico personaggio di Walt Disney. Quando Fellini nel film “Roma” decise di realizzare la sequenza della dimora imperiale nella quale, all’arrivo degli archeologi gli affreschi si dissolvono con il primo contatto dell’aria, fu Italo a escogitare la soluzione. I dipinti in stile pompeiano vennero eseguiti su tela e quindi ricoperti con il bianco di Medon, una vernice che si rivela soltanto asciugandosi. Dietro i pannelli furono sistemate resistenze elettriche e lampade a incandescenza in modo che, al momento di girare, il bianco venisse fuori a chiazze fino a ricoprire progressivamente il finto affresco. Le figure sbiadivano a vista e scomparivano per sempre: un’emozione indimenticabile. Tomassi ne andava legittimamente fiero, e viveva come un prezioso dono della vita – che amava con contagioso entusiasmo – aver potuto collaborare al fianco di Federico Fellini, un artista che egli aveva iniziato ad ammirare, ancora giovanotto, leggendone sul Marc’Aurelio le storielle umoristiche e strampalate.
La mostra che ora la figlia Daniela gli ha dedicato è un omaggio avvincente, che andrebbe riproposto nelle scuole, per non dimenticare come un cinema eccelso fosse alla fine il risultato – come avrebbe detto Fellini - di mani pazienti che sapevano usare forbici, carta, colla e colori.
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